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Divide la decisione della Cassazione sulla scarcerazione di Riina

 

La Cassazione ha accolto ieri un ricorso presentato dai difensori del più feroce dei boss di Cosa nostra che ha annullato con rinvio la decisione del Tribunale di sorveglianza di

Bologna, che aveva rigettato la richiesta di scarcerazione per motivi gravi di salute, aprendo dunque alla possibilità di un differimento

della pena o della concessione degli arresti domiciliari.

L’udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Bologna è adesso fissata per il 7 luglio.

Le prime dichiarazioni sono quelle di uno dei legali dell’ottantaseienne boss corleonese, Luca Cianferoni, che commenta: «c’è legittima soddisfazione da parte di noi legali per un percorso di difesa il più delle volte oscuro rispetto all’opinione pubblica, e che riguarda la salute di un uomo in condizioni molto, molto critiche». La decisione della Cassazione, aggiunge Cianferoni, assume una grande importanza perché ribadisce il «diritto a morire dignitosamente»

che andrebbe assicurato ad ogni detenuto, Riina compreso.

Apprezzamenti per la decisione della Cassazione giungono anche dall’Associazione Antigone. «Uno stato forte e democratico non fa mai morire nessuno in carcere deliberatamente», dichiara in una nota il presidente Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, commentando la

sentenza della Cassazione.

«In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, quella riguardante Riina è una pronuncia molto importante – sottolinea Gonnella – poiché pone il tema della dignità umana e di come essa vada preservata anche per chi ha compiuto i reati più gravi e, di conseguenza, come la pena carceraria non possa e non debba mai trasformarsi in una sofferenza atroce e irreversibile. Ancora oggi – prosegue il presidente di Antigone – ci sono detenuti che da circa 25 anni sono continuativamente sottoposti al regime duro di vita penitenziaria disciplinato dall’art 41 bis 2° comma dell’ordinamento penitenziario. Alcuni di loro versano in condizioni di salute gravissime tali da non poter costituire mai un pericolo all’esterno».

Di segno opposto le dichiarazioni di un magistrato diventato simbolo di un certo modo di intendere la lotta alla mafia come Nino Di Matteo, che appena quattro giorni fa, durante il convegno sulla giustizia organizzato dal M5S alla Camera esprimeva preoccupazione rispetto alla paventata «opportunità di abolire l’ergastolo cosiddetto ostativo anche per i mafiosi. Mi preoccupa sentire parlare della possibilità di allargare l’applicabilità di benefici penitenziari di varia natura, anche ai detenuti per reati di mafia».

«Mi preoccupo – aveva in quel frangente spiegato il magistrato – perché so bene, con l’esperienza che ho maturato in tanti anni di processi, che l’ergastolo e il 41 bis da sempre sono state le principali spine nel fianco per Cosa Nostra, tanto che l’abolizione dell’ergastolo e l’abolizione del 41 bis erano certamente tra gli oggetti principali delle richieste che i capi della mafia facevano allo Stato nella vicenda del cosiddetto Papello per smettere di fare stragi, per cessare la strategia stragista inaugurata con l’omicidio Lima e poi proseguita fino al fallito attentato all’Olimpico di Roma nel Gennaio del 1994».

 

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