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La giustizia “social” non preoccupa la Cassazione

I social network, si sa, sono in grado di influenzare l’opinione pubblica in modo determinante. Talvolta si parla anche, nel gergo giornalistico, di “giustizia mediatica” per indicare la spettacolarizzazione dei processi. Negli ultimi anni, infatti, la giustizia mediatica pare aver raggiunto dimensioni tali da radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo e di interferire con la dimensione propriamente giudiziaria del processo. E’ un fenomeno, questo, che sta assumendo dimensioni preoccupanti ed è stato oggetto di un duro j’accuse  del primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, che durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario in gennaio si è scagliato  contro le «distorsioni del processo mediatico», rilevando come «l’opinione pubblica esprime spesso sentimenti di avversione per talune decisioni di proscioglimento o anche di condanna, se ritenute miti, pronunciate dai giudici in casi che hanno formato oggetto di rilievo mediatico. Si scorge una frattura fra gli esiti dell’attività giudiziaria e le aspettative di giustizia, a prescindere da ogni valutazione circa la complessità dei fatti, la validità delle prove, i principi di diritto applicati, le garanzie del processo, la tenuta logica della decisione». Sui rischi connessi alla rappresentazione mediatica dei processi si spende da anni  anche l’Unione delle Camere penali italiane che, insieme all’Università di Bologna, ha dato vita all’Osservatorio sull’informazione giudiziaria italiana e pubblicato un libro che fotografa lo la proiezione mediatica dei  processi in Italia ed evidenzia come la stampa tenda sempre a ripiegare su soluzioni colpevoliste.

Ma anche la “giustizia social”, ultimamente, ha assunto contorni a dir poco singolari. La  Corte di cassazione,  però morde il freno e preferisce non drammatizzare. Con l’ordinanza 8878/2017 del 22 febbraio scorso, infatti i giudici di legittimità hanno ritenuto che i commenti sui social network non possono determinare il processo.

Il caso  riguardava la vicenda di un uomo, accusato nel 2015 di omicidio pluriaggravato nei confronti di una donna,  che il 13 settembre 2016  si rivolgeva al giudice del tribunale di Catania  per chiedere la rimozione del procedimento in corso. Il motivo consisteva negli attacchi continui e ripetuti nelle piattaforme social da parte di persone legate alla vittima, tali da costringere il suo avvocato difensore a rinunciare al mandato difensivo e a chiedere l’interruzione del processo in base all’articolo 45 del codice di procedura penale.
I giudici, esaminando la vicenda, hanno rigettato in toto il ricorso esprimendo le proprie considerazioni sulla “personalità” dei commenti su Facebook e sulla loro presunta efficacia. “Non vi è alcuna prova che i commenti presenti sul social network”, scrivono i giudici, “siano riferibili ai soggetti individuati dal ricorrente, non apparendo sufficiente l’utilizzo di una pagina Facebook intestata al nominativo di un soggetto per concludere che la stessa sia effettivamente allo stesso in uso e che i commenti ivi presenti siano stati dallo stesso effettuati”.
Ma oltre alla “personalità” dei commenti i giudici hanno sottolineato come gli attacchi social nei confronti dell’imputato, certamente discutibili, non sono in grado di alterare la situazione al punto da influire sul processo in corso, perché non è documentata alcuna conseguenza di tali pubblicazioni”. Peraltro, sottolineano ancora i Giudici, la rinuncia al mandato difensivo dell’avvocato è inconsistente, perché “dal contesto si apprende che il professionista si è sentito criticato politicamente, quale vicesindaco impegnato in attività volte a contrastare il “femminicidio”, e la costrizione della libertà e indipendenza professionale è meramente affermata”.

Redazione

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