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Sgarbi condannato a risarcire i danni ai magistrati del pool di Mani Pulite

 

Una frase costata molto cara a Canale 5: nel 1998 Vittorio Sgarbi aveva accusato il pool di Mani pulite di aver spinto al suicidio il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, adesso la terza sezione civile della Cassazione ha riconosciuto il danno subito da Borrelli, Colombo e Davigo per la lesione dell’immagine da parte dell’ex parlamentare nel corso della sua trasmissione “Sgarbi quotidiani”. In quest’occasione i giudici hanno precisato che il danno va quantificato in via equitativa tenendo conto della notorietà dei diffamati e della diffusione nazionale dell’emittente.

 

La vicenda: Sgarbi accusa i magistrati del pool di Mani Pulite

Nel settembre 2007 il Tribunale di Roma aveva accolto la domanda proposta da Francesco Saverio Borrelli, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo e aveva condannato R.T.I. Reti Televisive Italiane s.p.a., concessionaria della rete televisiva Canale 5, a pagare 50 mila euro per ciascuno per i danni subiti a causa della diffusione televisiva di espressioni lesive del loro onore, pronunciate da Vittorio Sgarbi nel corso della trasmissione “Sgarbi quotidiani“, il 24 febbraio 1998. “Allora, parlerò per concludere sul tema della vita e della morte con le parole di un morto, che già nel 1993 aveva fotografato perfettamente Di Pietro, Davigo, Colombo e Borrelli, ovvero gli uomini che non vorrei definire con una parola sintetica perché mi querelano, ma che lo hanno fatto morire”, aveva esclamato Sgarbi in quella puntata, riferendosi al presidente dell’Eni Gabriele Calabria,“gli uomini che lo hanno indotto ad uccidersi. Va bene così? C’è un’altra parola per definirli? Non la dirò. Gli uomini che… lo hanno spinto al suicidio”. Nel 1993 il pool di Mani Pulite aveva fatto arrestare Gabriele Calabria con l’accusa di avere autorizzato il pagamento di tangenti per far aggiudicare una commessa al Nuovo Pignone, società del gruppo Eni. Successivamente gli furono contestati altri reati compiuti durante la sua permanenza ai vertici dell’Eni. Il 20 luglio 1993 Cagliari fu ritrovato morto nelle docce del carcere di San Vittore, dove aveva trascorso quattro mesi di carcerazione preventiva, durante i quali era stato ripetutamente interrogato sugli sviluppi del caso Enimont. Cagliari si uccise soffocandosi con un sacchetto di plastica, ma prima di suicidarsi aveva scritto una lettera ai familiari nella quale aveva lanciato accuse durissime nei confronti dei magistrati, come quella di voler instaurare uno Stato autoritario. Della sua morte Sgarbi aveva accusato i tre magistrati del pool di Milano.

 

Nel 2014 la Corte d’Appello di Roma ha confermato la condanna ed R.T.I. ha fatto ricorso in Cassazione, chiedendo ai giudici di annullare la sentenza per violazione e falsa applicazione di norme di diritto, visto che la Corte d’Appello avrebbe riconosciuto ai magistrati il risarcimento a titolo di danno non patrimonialein totale assenza di prove relative ai danni asseritamente subiti“. Secondo R.T.I., infatti, la Corte d’Appello avrebbe dovuto accertare prima l’effettiva sussistenza dei danni non patrimoniali lamentati e dopo, sulla base di elementi di prova (che in realtà non sarebbero stati forniti) quantificare il danno.

La Cassazione condanna la concessionaria di Canale 5

La terza sezione della Cassazione, con l’ordinanza numero 21932 del 2017, ha però rigettato il ricorso, affermando che non è mancata l’individuazione, da parte del giudice di merito, di elementi da cui trarre la prova presuntiva del danno non patrimoniale da lesione della reputazione personale. I giudici di merito hanno in sostanza desunto dalla “qualità notoria dei soggetti diffamati”, dalla “rilevanza su scala nazionale dell’emittente televisiva”, dall’altrettanto “notoria figura del soggetto diffamante”, nonché e soprattutto dalla “gravità del fatto attribuito” ai magistrati, gli elementi per affermare la sussistenza del danno. In altre parole, il danno non patrimoniale da diffamazione a mezzo stampa va quantificato in via equitativa tenendo conto della notorietà dei diffamati e della diffusione nazionale dell’emittente. Per questi motivi, la Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la concessionaria di Canale 5 al pagamento delle spese del giudizio.

Eliseo Davì

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