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Appalti, il danno da perdita di chance va provato

Appalti, il danno da perdita di chance va provato. Cass. Civ. 24295/2016.

Con la recente pronuncia in commento, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi del danno da perdita di chance, e segnatamente in relazione agli appalti pubblici, riepilogando la consistenza dell’onere probatorio incombente sul danneggiato nonché le modalità e le caratteristiche dell’operazione di liquidazione del danno.

I tratti fondamentali del danno da perdita di chance.

Va preliminarmente ricordato come il danno da perdita di chance sia un’acquisizione relativamente recente del nostro ordinamento giuridico, il quale ha fattivamente aperto alla predetta fattispecie a partire dalla storica sentenza Cass. S.S.U.U. n. 500/1999, nella quale la Cassazione ha sancito, in ottica costituzionalmente orientata, la risarcibilità non soltanto del danno ingiusto arrecato ad un diritto soggettivo, ma altresì della lesione di legittime aspettative di natura patrimoniale, purché non mere aspettative semplici (con i noti riflessi anche sulla questione, più che centenaria, circa la risarcibilità della lesione di un interesse legittimo).

Volendo riepilogare sommariamente alcuni dei tratti principali del danno da perdita di chance, va innanzitutto ricordato che la definizione dottrinale e giurisprudenziale dominante di “chance” risarcibile, in accordo alla succitata sentenza n. 500/99, non coincide con una mera aspettativa di fatto, ma bensì con un’entità patrimoniale a sé stante e autonoma, economicamente valutabile e giuridicamente apprezzabile.
La perdita di chance, pertanto, costituisce un’autonoma voce di danno patrimoniale attuale, che incide su un bene giuridico (e, segnatamente, una legittima e concreta aspettativa) già presente nel patrimonio del soggetto al verificarsi dell’illecito; non si tratta quindi di un danno futuro (cfr. sul punto anche Cass. Lav. 13491/14), come invece da altri sostenuto.
Esso, conseguentemente, andrà commisurato non alla perdita del risultato futuro perseguito e alla sua consistenza, ma bensì alla perdita della suemarginata possibilità di conseguire il predetto risultato positivo, apprezzata ex ante.

Posto quindi che la perdita della possibilità di ottenere un risultato favorevole sarà risarcibile solo se affiancata da concrete e consistenti probabilità di successo, la relativa prova non potrà che essere a carico del danneggiato.
Quest’ultimo soggetto, in accordo alla grammatica fondamentale del risarcimento del danno aquiliano, dovrà provare – tra le altre cose – la sussistenza di un nesso causale tra l’evento lesivo lamentato e lo scopo perseguito, in accordo al principio della causalità civile sovente riassunto nella formula “più probabile che non” (cfr. anche Cass. 4170/2015).

La stima della concreta percentuale di probabilità che il danneggiato aveva di riuscire ad ottenere il predetto risultato incide poi sulla quantificazione del risarcimento, per la quale si dovrà fare riferimento all’utile economico ragionevolmente realizzabile diminuito di un “coefficiente di riduzione” parametrato alla predetta stima; ciò comporta una valutazione inevitabilmente equitativa, ma pur sempre ancorata a criteri sufficientemente determinabili.

Il caso deciso da Cass. civ. 24295/2016.

Nella parte motiva della pronuncia in commento, la Corte di Cassazione muove dai punti sopra sommariamente compendiati circa l’onere della prova e la quantificazione del danno patito per evidenziare il duplice errore di diritto in cui è incorsa la sentenza impugnata.

Nel caso de quo l’attore agiva nei confronti del Ministero dei Lavori Pubblici e del Comitato Centrale per l’Albo Nazionale Costruttori per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla mancata iscrizione della propria impresa in determinate categorie del predetto Albo, condizione necessaria per la partecipazione a determinate gare d’appalto da cui era stato conseguentemente escluso.

In primo grado si costituiva il solo Ministero, il quale veniva condannato a risarcire ben 10 miliardi di lire.

La Corte d’Appello, tuttavia, riduceva la predetta somma a € 750.000, respingendo le due doglianze del Ministero – poi per buona parte riproposte nel ricorso per cassazione – di cui la prima incentrata sulla carente motivazione in ordine alla qualificazione del comportamento dell’Amministrazione come colposo, poiché consistente in un mero richiamo da parte del Giudice di prime cure ad una precedente sentenza amministrativa resa tra le stesse parti, di cui si dirà; e una seconda censura volta a far valere la persistente discrezionalità dell’Amministrazione anche dopo l’annullamento in sede amministrativa dei provvedimenti di rigetto dell’iscrizione all’Albo richiesta dall’attore.
La Corte, in particolare, riteneva impossibile stabilire precisamente gli effetti della partecipazione dell’impresa alle gare da cui era stata esclusa in ragione della mancata iscrizione all’albo, riconoscendo tuttavia che detta mancata partecipazione aveva certamente determinato la riduzione di occasioni di potenziale ricavo per l’attore, e quindi la perdita di chances, valutabili equitativamente. Riteneva pertanto eccessiva la cifra liquidata dal Tribunale, e ciò in considerazione sia della mancata indicazione di parametri valutativi ben definiti, sia per l’inappropriato raffronto con i dati statistici emersi dalla CTU, utili al più per uno studio teorico di massima.

Il Ministero, nuovamente soccombente, ricorreva pertanto avverso la pronuncia d’appello, affidandosi a due motivi.

I motivi di ricorso e la decisione della Suprema Corte.

Con il primo mezzo di impugnazione l’Amministrazione si doleva della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa la sussistenza di una propria colpa.

Detto profilo, difatti, era stato motivato con il mero richiamo ad una precedente sentenza amministrativa, emessa in esito al giudizio di ottemperanza ad una pronuncia di merito, resa tra le stesse parti, che aveva accolto il ricorso dell’imprenditore avverso i provvedimenti di diniego di iscrizione all’Albo. Nella sentenza richiamata il Giudice amministrativo aveva qualificato la mancata esecuzione del giudicato in termini di colpa grave dell’Amministrazione, atteso che, dopo la sentenza di merito, in capo ad esso non residuava alcun margine ulteriore di discrezionalità circa la richiesta iscrizione. Secondo il Ministero ricorrente, invece, l’eventuale colpa avrebbe dovuto essere apprezzata nei termini di cui all’art. 2236 c.c., tenuto altresì conto del fatto che l’apprezzamento delle capacità tecniche dell’impresa integrerebbe un “problema tecnico di speciale difficoltà”.
Il motivo, tuttavia, è stato giudicato infondato dalla Cassazione: il Giudice di merito, difatti, non aveva tratto automaticamente la colpa dell’Amministrazione dalla (mera) mancata esecuzione del giudicato amministrativo, ma aveva invece correttamente desunto dalla sentenza richiamata anche l’insussistenza di alcun margine di residua discrezionalità in capo al Ministero. La colpa dell’Amministrazione – e la sua rilevanza ai fini risarcitori – deriverebbe pertanto dalla combinazione di entrambe queste due premesse, come già statuito nella sentenza amministrativa di cui si è detto, senza il predetto (ed erroneo) automatismo infondatamente lamentato dal ricorrente.

Con il secondo mezzo di impugnazione, invece, il Ministero censurava il riconoscimento a favore dell’attore di un danno non attuale, senza nesso di causalità diretto con il comportamento omissivo della P.A. convenuta, e la mancata indicazione dei criteri e dei parametri utilizzati per la liquidazione del danno patito, se non in termini del tutto generici. Doglianza, quest’ultima, già fatta valere nel giudizio di appello avverso la pronuncia di primo grado, e che, come sopra ricordato, era stata accolta dalla Corte territoriale.
Questo secondo motivo è stato ritenuto fondato dalla Suprema Corte, tenuto conto del fatto che la sentenza di appello aveva liquidato il danno “tenendo conto del lasso temporale durante il quale l’indebita omissione si protrasse e del tipo di impresa in considerazione”.
Evidenzia infatti la Cassazione l’erroneità di tale statuizione, atteso che “per il danno in oggetto va fatto ricorso al criterio prognostico, basato su concrete e ragionevoli, non ipotetiche, possibilità di risultati utili”. Richiamandosi alla propria precedente sentenza 2737/2015, infatti, la Corte ricorda che il danno da perdita di chance presuppone la prova, quantomeno in via presuntiva e probabilistica, della concreta possibilità – da valutarsi ex ante – di conseguire dei vantaggi economicamente apprezzabili.
Di conseguenza non può ritenersi corretta la valutazione svolta dalla Corte d’Appello, la quale aveva considerato solo le ipotetiche ed astratte possibilità di conseguire risultati utili, e, per di più, aveva quantificato il danno sulla sola base di criteri (il perdurare dell’omissione della PA e il “tipo” di impresa coinvolta) del tutto inadeguati e generici, in evidente contrasto con gli stessi tratti caratteristici del danno da perdita di chance come sopra riassunti.

La Suprema Corte, pertanto, sancisce il seguente principio di diritto: “Ove sia fatta valere a fondamento della domanda risarcitoria ex art.2043 c.c. nei confronti dell’Amministrazione, la lesione dell’interesse pretensivo, concretantesi nel caso nella preclusione della possibilità di partecipazione a gare pubbliche per la illegittima mancata iscrizione dell’impresa nell’Albo Nazionale Costruttori per le categorie di lavori ed importi indicati, occorre valutare, sulla base degli elementi di fatto forniti dal danneggiato, in via presuntiva e probabilistica la sussistenza ex ante di concrete e non ipotetiche possibilità di conseguire vantaggi economici; dell’accertamento e della liquidazione di tale perdita condotte in via equitativa il giudice deve dare conto del processo logico e valutativo seguito.

Davide Baraglia

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