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Fecondazione eterologa, sì al disconoscimento di paternità se il marito non sa nulla

Paternità e fecondazione assistita: il disconoscimento nel codice civile

Il nostro ordinamento, come noto, prevede la possibilità per un padre di disconoscere, in presenza di alcuni requisiti di legge, i propri figli. Il tema, chiaramente, è molto delicato, inerendo uno degli ambiti più importanti e determinanti nella vita di ogni individuo: la famiglia.

Le previsioni in materia sono dettate dal codice civile, in particolar modo dall’attuale art. 244, che sancisce le modalità operative sia qualora sia la madre a voler ottenere un disconoscimento di paternità, che i casi in cui sia lo stesso padre.

Secondo il disposto dell’art. 244 c.c., infatti: “l’azione di disconoscimento della paternità da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio ovvero dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento. Il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza (comma 2)”.

Paternità e fecondazione assistita: il caso

A norma del codice civile, pertanto, è evidente come il momento della conoscenza, da parte del marito, del proprio stato di impotenza o dell’adulterio della moglie sia determinante, in quanto fa scattare il termine di decadenza annuale per proporre l’azione di disconoscimento della paternità.

Sul punto, si è espressa di recente la Corte di cassazione, sezione I, con la sentenza 28 marzo 2017 n.7965, in un caso riguardante un padre che aveva richiesto il disconoscimento di paternità.

L’uomo, padre di un bambino nato in costanza di matrimonio, aveva scoperto di essere impotente a generare a seguito di una nuova relazione con un’altra donna, e successivamente, aveva ricevuto conferma della propria impotenza dalla moglie, che in una lettera lo informava di essere ricorsa, per rimanere incinta, ad un non meglio definito “aiuto di laboratorio”.

Rigettata la domanda in primo grado, in appello i giudici si erano espressi rilevando la tardività della proposizione dell’azione, esperita decorso il termine annuale (calcolato a partire dal momento della conoscenza dell’impotenza a generare dell’uomo).

Paternità e fecondazione assistita: l’equiparazione fra inseminazione ed adulterio

Con la sentenza n. 7965/2017 la Corte di Cassazione sovverte le risultanze dell’appello, accogliendo tre motivi di ricorso e rinviando gli atti alla Corte d’appello di Brescia.

Secondo la ricostruzione dei giudici di legittimità, infatti, la questione è se “proposta un’azione di disconoscimento per impotenza a generare […] chi agisce possa, nel corso del processo, far valere ragioni diverse a favore del disconoscimento, come quella rappresentata dal ricorrente, il quale ha assimilato all’adulterio (v. l’abrogato art 235 n. 3 c.c.e il vigente art. 244 comma 2 c.c.) il concepimento mediante ricorso da parte della moglie, a sua insaputa, alla fecondazione eterologa”.

La cassazione condivide la tesi proposta dal ricorrente, equiparando inseminazione ed adulterio.

La possibilità di poter quindi procedere con l’azione di disconoscimento di paternità deriva da un’assimilazione fra il momento della effettiva conoscibilità del tradimento e quello della conoscenza del ricorso, da parte della moglie, alla fecondazione assistita.

A seguito dell’introduzione della legge 40/2004 peraltro, che sancisce la regolamentazione in materia di fecondazione assistita, anche la giurisprudenza si è pronunciata nel senso che il ricorso alle tecniche di fecondazione da parte della donna coniugata all’insaputa del marito corrisponde ed è equiparabile all’adulterio (Corte di Cassazione n.11644/2012).

In entrambi i casi infatti, in sostanza, la gravidanza ed il figlio – figlia che ne siano il frutto sarebbero “risultato” di un’azione posta in essere dalla moglie senza renderne edotto il coniuge, che pertanto – sia a seguito di un adulterio, che a valle di un intervento di fecondazione – non sarebbe stato messo nelle effettive condizioni di sapere di non essere, di fatto, il padre del nascituro.

E’ dunque dal momento in cui si sia acquisita la certezza del ricorso al metodo di procreazione assistita che inizia a decorrere il termine di decadenza annuale, che nel caso in esame è da identificarsi a partire o dalla ricezione della lettera della moglie che informava il ricorrente di quell’ “aiuto di laboratorio” usato per rimanere incinta, o dalla successiva dichiarazione della donna in merito al ricorso alla fecondazione eterologa, resa durante udienza in corso di causa.

Indipendentemente da quale dei due momenti si computi, ad ogni modo, il ricorrente non sarebbe incorso in alcuna decadenza temporale per la proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità.

Chiara Pezza

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