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Giudizio di Appello: ammissibili nuove prove

Giudizio di Appello: ammissibili nuove prove

E’ possibile presentare anche nel giudizio di appello nuovi mezzi di prova, se eliminano incertezze. Questo è il principio di diritto, sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 10790/17.

Nonostante, quindi,  il divieto  stabilito dall’art. 345 c.p.c., anche nel secondo grado di giudizio, le parti possono chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova a condizione che essi siano necessari per decidere, eliminando, appunto, le incertezze. Ma, è necessario, per comprendere la ragione di questa innovativa decisione, procedere con ordine e innanzitutto chiarire, quando, in appello, secondo il tenore letterale della norma regolatrice il caso di specie, siano ammissibili nuove prove.

 Il divieto di iura nova

L’art. 345 c.p.c., appunto, stabilisce il divieto di iura nova, o ius novorum, ossia che non si possono presentare nuovi mezzi di prova che non sono stati già presentati in primo grado. Se proposti, questi verranno dichiarati inammissibili d’ufficio.  In effetti, la ratio di questo stabile divieto assoluto di proporre domande nuove o nuove prove, ha la funzione di garantire la piena attuazione del principio del doppio grado di giurisdizione.

Inizialmente, però,  la disposizione prevedeva una deroga a tale divieto: era, infatti,  ammessa la produzione di nuove prove in appello, se il collegio le riteneva indispensabili ai fini della decisione della causa. Tale previsione è stata, però, successivamente cancellata nel 2012. Attualmente, però, la stessa eccezione resta integra in materia di processo del lavoro, di impugnazione del licenziamento e nel processo sommario di cognizione, ma solo se “indispensabile ai fini della decisione”. Ed è proprio su questo punto che è intervenuta la Suprema Corte, facendo chiarezza su quando si possa parlare di prova “indispensabile”.

Il concetto di prova indispensabile

In  effetti, secondo i Giudici di Piazza Cavour, la nuova prova in appello è ammissibile se «indispensabile ai fini del decidere». Si deve cioè trattare di una prova «di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado».

Il giudizio di indispensabilità, in effetti  “implica una valutazione sull’idoneità del mezzo istruttorio a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi”, ovvero tali da dissipare ogni incertezza sulla ricostruzione fattuale della vicenda sottoposta all’esame del giudice. La rilevanza di una prova, quindi,  può essere maggiore o minore a seconda della sua potenziale idoneità dimostrativa in rapporto al thema probandum: ove quest’ultima sia massima, vale a dire tale da dirigere di per sé, in un senso o in un altro, il contenuto del provvedimento giurisdizionale o d’una parte autonoma di esso, si è in presenza d’una prova decisiva.

La tesi oppposta

Con ciò, quindi, viene rigettata dalla Suprema Corte, l’opposta tesi della cosiddetta «indispensabilità ristretta» secondo cui «sono qualificabili come indispensabili solo le nuove prove la cui necessità emerga dalla stessa sentenza impugnata, prove delle quali non era apprezzabile neppure una mera utilità nel giudizio di primo grado». Secondo tale orientamento, in effetti, incorrerebbe nel divieto di nova di cui all’ art. 345 co.3 c.pc., la prova che già appariva rilevante durante lo svolgimento del giudizio di primo grado e prima del formarsi delle preclusioni istruttorie, sicché la sentenza non si è potuta fondare su di essa solo per la negligenza della parte interessata, che ben avrebbe potuto introdurla. E queste due antitetiche letture della fattispecie in esame, con ovvie sfumature e accenti diversi, fanno capo, appunto, a due fondamentali opzioni interpretative. Ovviamente e la sentenza in esame lo conferma, la Corte di Cassazione condivide, pienamente, la prima di esse.

La soluzione elaborata dalla Suprema Corte

In ogni caso, proseguono i giudici, anche per meglio giustificare la miglior praticabilità del primo orientamento nei confronti del secondo: “se indispensabili sono solo le nuove prove la cui necessità emerga dalla stessa sentenza impugnata, prove delle quali non era apprezzabile neppure una mera utilità durante il giudizio di primo grado, va da sé che rispetto ad esse la parte si è trovata, per causa che non le è imputabile, nell’impossibilità di proporle”. Non si tratta, però, di vanificare od alterare il regime delle preclusioni istruttorie del primo grado, ma di contemperarlo con il principio della ricerca della verità materiale. In tal senso, ciò che  alla Suprema Corte preme segnalare è, in sintesi, che il regime delle preclusioni istruttorie non è un carattere tanto coessenziale al sistema da non ammettere alternative, essendo soltanto una tecnica elaborata per assicurare il rispetto del contradditorio, la parità delle parti nel processo e la sua ragionevole durata, tecnica che ben può essere contemperata (secondo modalità pur sempre rimesse alla discrezionalità del legislatore) con, appunto, il principio della ricerca della verità materiale.

In definitiva, quindi e per concludere, il divieto di iura nova non è sempre valido: in casi eccezionali, infatti, è possibile chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, ma a condizione che questi siano necessari per decidere, in quanto indispensabili per eliminare le incertezze.

Mariano Fergola

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