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Legittimo il licenziamento se il dipendente spaccia marijuana

Legittimo il licenziamento dell’autista delle autolinee regionali che fa piccolo spaccio di sostanze stupefacenti, irrilevante il riconoscimento della lieve entità. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza 9126 del 12 aprile 2018.

I fatti

La Corte d’Appello di L’Aquila, in parziale riforma delle sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda del dipendente di una società di trasporto, il quale aveva chiesto venisse accertata la illegittimità del licenziamento.

Il giudice di appello ha riscontrato la gravità della condotta addebitata al dipendente, osservando che:

a) dalla sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. era emerso che l’imputazione in sede penale  non prevedeva solo la coltivazione di un numero esiguo di piantine, nelle adiacenze dell’abitazione dell’autista, ma anche la coltivazione e detenzione a fini di spaccio – seppure con riconoscimento della ipotesi di tenuità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990;

b) il comportamento del dipendente assumeva una decisiva rilevanza tenuto conto anche delle sue mansioni. Il dipendente infatti era un autista addetto alla guida di automezzi pesanti sulla pubblica via, e ciò si riverberava anche sulle specifiche fattispecie di reato collegate alla guida sotto l’influenza di stupefacenti;

c) la società datrice di lavoro avrebbe potuto essere chiamata a rispondere, ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., delle condotte di guida del proprio autista;

d) la condizione di consumo di stupefacente, sia pure del tipo “leggero”, detenuta in quantità e circostanze di tempo e di luogo compatibili con l’ipotesi del consumo  abituale (da sola sufficiente ad inibire la guida di veicoli su strada) – attestata dalla sentenza di patteggiamento – configurava, quindi, giusta causa di licenziamento tenuto conto del fatto che il dipendenteera addetto alla guida di automezzi adibiti al trasporto di persone, mansioni che richiedevano particolare attenzione e lucidità.

La Cassazione rigetta il ricorso

Avverso la decisione della Corte d’Appello, proponeva ricorso per Cassazione il dipendente, sulla base di nove motivi, tutti rigettati.

Dall’esame degli atti di causa è emerso che, a differenza di quanto assunto da parte ricorrente, la valutazione di legittimità del provvedimento di recesso adottato dalla società, non è stata fondata, sulla sola sentenza di patteggiamento.

Il giudice di appello, ha infatti chiarito che la condotta non poteva essere limitata, come sostenuto dal lavoratore, alla sola coltivazione di un modesto numero di piantine ma andava estesa anche alla coltivazione e detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, richiamando quanto emerso dal verbale di sequestro in sede penale  nonché quanto emerso in sede di perquisizione domiciliare. Sulla base di ciò, ha effettuato la propria autonoma valutazione, escluso ogni automatismo relativo alla sentenza di patteggiamento.

La decisione è, quindi, in linea rispetton all’orientamento della giurisprudenza secondo il quale «il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale, potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale».

La valenza probatoria  della sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p p., costituisce un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, «ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione». La sentenza di patteggiamento, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza.

Maria Rosaria Pensabene

 

 

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