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Responsabilità sociale e condotte distrattive: se la prova è rigorosa amministratori e soci ne rispondono

Responsabilità sociale e condotte distrattive: la controversia

In una complessa vicenda in materia societaria e fallimentare, il tribunale di Milano in composizione collegiale si è recentemente espresso sulla responsabilità dei soci e degli amministratori di una società a responsabilità limitata (avente quale oggetto sociale la compravendita, la conduzione e la gestione in proprio di pubblici esercizi) successivamente fallita, per condotte poste in essere a danno della società stessa.

Oggetto della questione: una serie di condotte di natura distrattiva poste in essere dagli amministratori e soci della società, chiamati a risponderne ai sensi degli artt. 2476 c.c. e 146, comma 2 della legge Fallimentare.

Si definisce condotta distrattiva l’attività gestionale posta in essere da un socio che si verifica, usando le parole del tribunale milanese, “allorché un bene che rientra nel patrimonio della società ne sia fatto materialmente o giuridicamente fuoriuscire, determinando un suo mutamento di destinazione, per il soddisfacimento di uno scopo economico diverso da quello impressogli in ragione della sua disponibilità in capo alla società, ovvero allorché un bene viene ceduto o un servizio viene prestato dalla società in assenza di corrispettivo o con corrispettivo ontologicamente inadeguato”.

Tutte queste condotte, dunque, sono prive di una controprestazione dell’eventuale terzo contraente, ovvero ne hanno una non adeguata. Nel caso in esame, il Fallimento aveva proposto azione contro amministratori e soci della società imputando loro, ex multis, di aver distratto somme a proprio favore, derivanti da buoni pasto, vendita di beni e servizi, canoni di locazione. Il curatore fallimentare chiedeva dunque i danni a soci ed amministratori, e produceva documentalmente diverse fatture.

Responsabilità sociale e condotte distrattive: il ruolo del quadro probatorio

Con la sentenza n. 2691 del 7 marzo 2017, Il Tribunale di Milano – sezione specializzata in materia di impresa – ha condannato alcuni amministratori e soci della società convenuta, specificando, nella sua precisa e puntuale disamina, il rilievo del complessivo quadro probatorio, sia dal punto di vista documentale che testimoniale.

Un primo rilievo riguarda anzitutto le mancate contestazioni circa la posizione del Fallimento in corso di causa, secondo cui la documentazione inerente le scritture contabili non era stata consegnata, in violazione dell’art. 86 legge fallimentare. Tale assunto non è stato contestato dai convenuti, che non hanno peraltro al contempo dato prova dell’avvenuta consegna (le precisazioni in sede di comparsa conclusionale sono state infatti ritenute tardive), asserendo unicamente di aver fatto recapitare la documentazione necessaria. Secondo i giudici, dunque, in questa ipotesi trova evidente applicazione il disposto dell’art. 115 cpc, “in forza del quale un fatto incerto, purchè precisamente dedotto – come nel caso di specie – è da considerarsi sottratto alla necessità di dimostrazione in quanto l’interessato si sia astenuto dal contestarlo (o, comunque, abbia impostato le proprie difese su circostanze o argomentazioni logicamente incompatibili con il disconoscimento del fatto medesimo)”.

In relazione alle risultanze documentali, secondo la Corte soci ed amministratori non hanno tempestivamente contestato le allegazioni mosse da parte attrice circa le modalità dei prelievi per i quali è causa, e circa la loro quantificazione. Al contempo, inoltre, parte convenuta non ha fornito la prova positiva dell’avvenuto pagamento nei confronti dei fornitori, venendo così meno al suo onere probatorio consistente nell’osservare i doveri di diligente adempimento delle obbligazioni assunte. Alcun rilievo, secondo il Tribunale, esplica l’allegazione da parte dei convenuti dello stato passivo del fallimento, da ritenersi “inconferente ai fini probatori poiché dallo stesso non può in ogni caso evincersi la destinazione delle somme di cui si discute, ben potendo i fornitori essere stati pagati dalla società con altri mezzi”.

Per quanto concerne infine le risultanze testimoniali, anche sotto questo aspetto i giudici hanno nettamente non condiviso le tesi degli amministratori e soci della società, sotto una molteplicità di profili.

Secondo il collegio le dichiarazioni testimoniali a favore degli amministratori della società convenuta non avrebbero avuto, in pratica, quasi alcuna efficacia probatoria, in quanto da considerarsi de relato, incomplete, inerenti fatti avvenuti molti anni prima dell’effettiva prova testimoniale, e si sarebbero sostanziate in concreto in dichiarazioni testimoniali non congruenti – in relazione a quella che nella sentenza viene definita “entità delle forniture” – con le risultanze documentali, ovvero le fatture.

Alla luce pertanto di una valutazione complessiva delle risultanze probatorie a disposizione, “il Collegio ritiene scarsamente attendibili le testimonianze di cui si discute e sufficientemente provato l’ddebito di responsabilità fatto valere da parte attrice”.

Atteso il lasso temporale della questione, comunque, la Corte ha ritenuto provata la responsabilità con condanna al risarcimento dei danni unicamente in capo agli amministratori della società che risultassero in carica nei rispettivi periodi in cui si sono verificate le condotte distrattive ritenute provate.

Sulla responsabilità per mala gestio di alcuni soci, infine, il tribunale di Milano ha riconosciuto addebiti parziali: per una socia il quadro probatorio è stato ritenuto meramente indiziario, mentre per la posizione di un’altra socia i giudici sono giunti all’opposta conclusione con conseguente condanna, poichè gli indizi a suo carico sarebbero “caratterizzati da un grado di univocità, gravità e concludenza tale da far ritenere senz’altro provata [la sua] ingerenza rilevante”.

Chiara Pezza

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