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Rinuncia al giudizio: chi paga l’avvocato?

Solitamente si decide di andare da un avvocato e di intraprendere un’azione giudiziaria nei confronti di qualcuno quando si ritiene non vi sia alcuna possibilità di risolvere bonariamente una determinata questione.

Tuttavia, iniziata la causa, può accadere qualcosa per cui le parti in causa riescano a trovare un accordo e decidano, cosi, di abbandonare la procedura.

Tutti soddisfatti, rimane però un problema: se si rinuncia al giudizio, chi paga l’avvocato?

Rinuncia al giudizio: chi paga l’avvocato? La Cassazione

Con l’ordinanza n. 184/2018 la Cassazione ha dato continuità al più recente indirizzo della stessa Corte, secondo cui “l’art. 68 del r.d.l. 27 dicembre 1933, n. 1578, modificato dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, stabilendo che tutte le parti, le quali abbiano transatto una vertenza giudiziaria, sono tenute solidalmente al pagamento degli onorari degli avvocati, è operante anche nel caso di accordo stipulato con o senza l’intervento del giudice o l’ausilio dei patroni, dalle parti stesse, le quali abbiano previsto semplicemente l’abbandono della causa dal ruolo o rinunciato ritualmente agli atti del giudizio, come nel caso specie, con conseguente estinzione del processo”.

Rinuncia al giudizio: chi paga l’avvocato? Il fatto

rinuncia al giudizio
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Il professionista in questione aveva prestato il proprio patrocinio in due giudizi che erano stati transatti ed abbandonati senza che gli venissero liquidati i compensi per l’attività professionale svolta. Per tale motivo chiedeva la condanna, delle parti che avevano transatto quei giudizi, al pagamento di una data somma, a titolo di compenso per le prestazioni professionali rese ex art. 68 Rd n.1578/1933.

Rinuncia al giudizio: chi paga l’avvocato? I giudizi di merito

Tuttavia, in primo grado la richiesta non trovava accoglimento.

La Corte d’Appello territoriale, invece,  riformava la sentenza e condannava in solido le controparti al pagamento in favore del legale di una somma, seppur inferiore rispetto a quella dallo stesso richiesta, affermando che, “ai fini del pagamento del proprio compenso per attività professionale, ai sensi dell’art. 68 Rd 1578/1933, il legale non aveva l’onere di fornire la prova di una vera e propria transazione intervenuta tra le parti e che l’accordo transattivo poteva desumersi anche dall’estinzione del giudizio per rinuncia agli atti”.

Proposto ricorso in Cassazione avverso tale pronuncia i Giudici di legittimità hanno confermato quanto affermato dalla Corte di Appello, osservando, tra l’altro, che la Corte territoriale aveva espressamente palesato  il proprio ragionamento, rilevando che “l’estinzione per inattività delle parti era stato oggetto di esplicita ammissione nel corso del giudizio di primo grado da parte dell’attuale ricorrente, sulla base della propria comparsa di costituzione e risposta, mentre il cliente dell’Avv. X aveva ammesso che tale esito era stato concordato nel contesto di un accordo transattivo cui erano rimasti estranei i legali”.

Ebbene, per la Cassazione, su tali basi, giustamente, la Corte aveva concluso, con adeguata valutazione di merito, che poteva ritenersi provato l’accordo transattivo per l’abbandono della causa e che pertanto le parti andavano condannate in solido al pagamento dell’onerario del professionista, e ciò appunto in virtù dell’art. 68 del r.d.l. 27 dicembre 1933, n. 1578, modificato dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, “in ragione della latitudine della formula normativa e della sua finalità, diretta ad evitare intese tra le parti indirizzate ad eludere il giusto compenso ed il rimborso delle spese ai loro difensori”; nonché – verrebbe da dire –  in ragione di un noto detto siculo: “Isti pi futtiri…”!

Iolanda Giannola

 

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