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Dopo vent’anni assolte tutte le “Camicie Verdi” leghiste

L’accusa era di aver costituito, promosso, organizzato e diretto un’associazione di carattere militare ma, dopo 20 anni di processo, le 34 “Camice Verdi” sono state tutte assolte. I giudici della Cassazione, infatti, hanno respinto il ricorso del pubblico ministero che ne chiedeva la condanna, confermando così la decisione del giudice dell’udienza preliminare di Bergamo che, il 18 novembre 2015, ha camicie verdidichiarato il non doversi procedere contro le “Camice Verdi” perché il fatto non è stato continuativamente previsto come reato. I militanti leghisti hanno per altro ottenuto 7.360 euro a testa di risarcimento, accordato per l'”ingiustificata” durata del procedimento: sono rimasti in sede di udienza preliminare per 19 anni e 6 mesi.

A Pontida nasce la guardia nazionale padana

La vicenda ha avuto inizio a Pontida, nel giugno del 1996. Durante uno dei raduni del Carroccio, fu fondato il Comitato di liberazione della Padania, dotato di un “servizio d’ordine organizzato nell’ambito dei territori della Padania, che viene denominato Camicie verdi“. Un gruppo di militanti, residenti in diverse province del Nord riunitasi nella neonata “Guardia nazionale padana”. Tra di loro vi erano anche dei big della Lega Nord, come Umberto Bossi, Roberto Maroni, Roberto Calderoli, Mario Borghezio e Marco Formentini. L’allora procuratore di Verona, Guido Papalia, aprì subito un’inchiesta, giungendo alla conclusione che l’organizzazione fosse dotata di “caratteristiche paramilitari” aventi come obiettivo quello di “disciogliere l’unità dello Stato“.camicie verdi secessione

Il rinvio a giudizio, però, arriva solo dopo 14 anni e intanto la Corte costituzionale aveva riconosciuto l’immunità parlamentare, decretata da Camera e Senato, a quegli indagati che quei tempi ricoprivano cariche parlamentari (come Bossi). Per gli altri 36 indagati l’accusa era di costituzione di banda armata. Nel 2014 i giudici accolgono l’eccezione di competenza territoriale presentata dall’avvocato di uno degli accusati e il procedimento viene spostato a Bergamo, dove la procura chiede un nuovo rinvio a giudizio. I militanti leghisti rischiavano una pena compresa fra uno e dieci anni di reclusione, ma, al contrario, il giudice dell’udienza preliminare ha deciso per il proscioglimento. Contro la sentenza ha fatto ricorso per Cassazione il procuratore della Repubblica di Bergamo, facendo valere la sentenza numero 5 del 2014 della Corte costituzionale con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 2268 del codice dell’ordinamento militare nella parte in cui abrogava il reato di associazione criminale. Secondo il procuratore, infatti, a seguito di questa pronuncia la norma incriminatrice è stata rivitalizzata ed è perfettamente applicabile alle condotte commesse nella vigenza della norma stessa. Il giudice del tribunale di Bergamo, invece, aveva ritenuto che in questo caso si dovesse applicare il comma 2 dell’articolo 2 del codice penale, secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce reato, essendo del tutto irrilevante il successivo ripristino della criminosità della condotta.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 24795 del 2017, dopo aver ripercorso il travagliato percorso della giurisprudenza costituzionale in tema di sindacato di costituzionalità sulle norme penali di favore, ha confermato l’impostazione del gup del tribunale di Bergamo e rigettato il ricorso del procuratore, affermando che “alla retroattività della norma di favore in esame anche ai fatti compiuti prima della sua emanazione non ostano le decisioni della corte costituzionale e anzi, la disapplicazione dell’art. 2 comma 2 del codice penale finirebbe col violare, nel caso concreto, il fondamentale principio di uguaglianza previsto dall’art. 3 della Carta fondamentale”.

Prevedibile è l’esultanza dei leghisti. “Forse oggi possiamo davvero dire che giustizia è fatta, anche se la giustizia ha impiegato vent’anni per fare il suo corso e questo non lo possiamo accettare”, ha dichiarato il senatore Roberto Calderoni, “è un processo che non avrebbe mai dovuto neppure iniziare, trattandosi solo di opinioni liberamente espresse, senza che mai ci fosse stato un singolo atto di violenza o prevaricazione”.

Eliseo Davì

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