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Peculato per il direttore dell’ufficio postale

Peculato per il direttore dell’ufficio postale

 

Se il direttore di un ufficio postale, preleva indebitamente ingenti somme dalle casse della società per esigenze personali, risponde di peculato o appropriazione indebita? Questa domanda è stata sottoposta alla Corte di Cassazione, che ha analizzato la fattispecie e chiarito il dubbio nella sentenza n.10875/2017.

Il fatto

I fatti risalgono a qualche anno fa, quando il direttore dell’ufficio postale di Grottaferrata si appropriava di una ingente somma di denaro, giacente nella cassa contabile, unica per i servizi postali e di bancoposta, che artificiosamente faceva apparire come caricate nello sportello ATM, utilizzando, poi, tali somme per esigenze personali. Inoltre, lo stesso incauto dirigente, si appropriava di un timbro intestato all’ufficio postale di Grottaferrata e di ulteriori ingenti somme operando a proprio vantaggio il rimborso di buoni fruttiferi postali di terzi, ovvero effettuando prelievi su libretti di risparmio postale a lui affidati per l’esecuzione di operazioni bancarie diverse , cagionando danni patrimoniali di rilevante gravità ai privati interessati e a Poste Italiane S.p.a.

La Corte d’Appello di Roma, confermava, in seguito, la sentenza di primo grado che ad esito di giudizio abbreviato, lo aveva ritenuto responsabile per numerose condotte di peculato, a lui contestate, per il ruolo che ricopriva.
Il ricorrente censurava la sentenza impugnata, lamentando la violazione dell’art.314 c.p. e vizi di motivazione, per avere la Corte territoriale, ritenuto la qualità di incaricato di pubblico servizio del ricorrente, nonostante egli avesse posto in essere le condotte a lui contestate nell’esercizio dell’attività di bancoposta, da qualificarsi come attività di carattere privato al pari di quella svolta dalle banche, sicché il contegno in questione rientrerebbe nella fattispecie astratta dell’appropriazione indebita e non in quella del reato proprio di peculato.

La decisione della Suprema Corte

Ma la Suprema Corte non è di questo avviso e coglie l’occasione per evidenziare che per la risoluzione della “questio iuris”, sia necessario individuare la natura della qualifica soggettiva dei dipendenti di Poste italiane che svolgono attività di “bancoposta”, atteso che, solo riconoscendo agli stessi la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, sia poi, possibile che si configuri il reato di peculato, pur ammettendo che in tale fattispecie è evidente un notevole contrasto giurisprudenziale. Infatti, come chiarito dai giudici di Piazza Cavour, da una parte si è affermato che, in tema di qualificazione soggettiva degli addetti ai servizi postali, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, il dipendente di un ufficio postale addetto all’attività contabile, svolta anche nel settore della raccolta del risparmio, in quanto la trasformazione dell’amministrazione postale in ente pubblico economico e la successiva adozione della forma della società per azioni, di cui alla legge n. 662 del 1996, non fanno venir meno la natura pubblicistica, non solo dei servizi postali definiti riservati dal D.Lgs. n. 261 del 1999, ma anche dei servizi non riservati, come quelli relativi alla raccolta del risparmio, attraverso i libretti di risparmio postale ed i buoni fruttiferi (c.d. “bancoposta”), ora disciplinata dal D.Lgs. n. 284 del 1999.
Diverso indirizzo giurisprudenziale ha, invece, affermato che il dipendente di Poste Italiane S.p.A. che svolga attività di tipo bancario (cosiddetto “bancoposta”) non riveste la qualità di persona incaricata di pubblico servizio; con la conseguenza che l’appropriazione di somme dei risparmiatori commessa con abuso del ruolo, integra il reato di appropriazione indebita e non quello di peculato.

Ciò premesso, prosegue la Corte di Cassazione, l’art. 358 c.p. definisce l’incaricato di un pubblico servizio come colui che, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico, a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con un determinato ente pubblico. In altri termini, il legislatore ha privilegiato il criterio oggettivo-funzionale, non richiedendo quindi che l’attività svolta, sia direttamente imputabile a un soggetto pubblico, essendo sufficiente che il servizio, anche se concretamente attuato attraverso organismi privati, realizzi finalità pubbliche.
Secondo i giudici di legittimità, pertanto, è da avallare il primo degli orientamenti su richiamati, atteso che tutta la normativa che regola l’attività svolta da Poste Italiane S.p.a, è espressione di una specifica connotazione pubblicistica della raccolta e dell’impiego del risparmio postale, in quanto per legge direttamente e unicamente finalizzato al perseguimento di primari interessi pubblici.

La massima

Pertanto, conclude la Suprema Corte, “il servizio di raccolta del risparmio postale, rientrante tra i servizi di Bancoposta, pur se non direttamente imputabile ad un soggetto pubblico e concretamente attuato attraverso organismi privati, ha natura pubblicistica e, quindi, le persone addette ai suddetti servizi sono da considerarsi, ai sensi dell’art. 12, d.P.R. n. 156/1973, pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, in conformità degli artt. 357 e 358 c.p. Ne consegue che la sottrazione indebita di somme in disponibilità dei dipendenti di Poste s.p.a. integra il reato di peculato”.

Mariano Fergola

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