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Il punto della Cassazione sui confidenti della polizia

Corte di Cassazione, sezione sesta penale, sentenza n. 42566/2017

Capita spesso che le forze di polizia utilizzino i cosiddetti “informatori” o “confidenti” per l’avvio o la prosecuzione delle proprie indagini.  Ma fino a che punto è lecito “l’uso” di detti soggetti nelle indagini e, quando invece, la legge impedisce di utilizzare gli esiti delle stesse quando derivino da una notizia confidenziale? Può una persona informata sui fatti, che riferisce una determinata circostanza solo in via informale, essere considerata “informatore”?

La legge, all’art. 267 del codice di procedura penale, dispone che le intercettazioni possano essere autorizzate, nei confronti di un soggetto, solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza. Tra questi vanno valutati eventuali elementi derivanti da informazioni confidenziali rese alla polizia ai sensi dell’art. 203, dai c.d. “informatori”. Tuttavia, le intercettazioni disposte solo in esito a tali informazioni non possono ritenersi utilizzabili, a meno che i “confidenti” non siano poi esaminati come testimoni.

Sul punto, peraltro, la giurisprudenza ha precisato che i risultati delle intercettazioni disposte sulla base di fonti confidenziali o anonime acquisite dalla polizia sono utilizzabili solo se queste non sono gli unici elementi che fondano la valutazione della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e che le operazioni siano state autorizzate anche sulla base di altri elementi emersi che le integrino.

Ma chi sono questi confidenti di polizia?

Secondo la Corte si tratta di una categoria di soggetti molto ristretta che, “agendo, di regola, dietro compenso di denaro o in funzione di altri vantaggi, forniscono alla polizia giudiziaria, occasionalmente, ma con sistematicità, notizie da loro apprese”. Perché si possa parlare di “informatore” è necessario che sussistano contemporaneamente due requisiti. Il primo è rappresentato  dalla segretezza. Il dichiarante, infatti, vuole rimanere anonimo per ragioni di opportunità o sicurezza. Il secondo, invece, è costituito dal rapporto di fiducia intercorrente tra l’organo di polizia e il confidente. Da un lato, vi sono le informazioni fornite da tale soggetto e, dall’altro, vi è l’impegno della polizia di non rivelare l’identità dell’informatore.

Essendo questo il quadro normativo relativo ai “confidenti”, la risposta al quesito iniziale è pertanto negativa. Non possono assimilarsi a tale figura quelle persone informate sui fatti che, avvicinate dagli organi di polizia, rilascino dichiarazioni, in via del tutto informale, rifiutandosi poi di sottoscriverle. La notizia appresa, quindi, dalla polizia (come nel caso di specie), nell’ambito di una perquisizione, non è tecnicamente qualificabile come “confidenziale” e, pertanto, può essere utilizzata, ai sensi dell’art. 267 c.p.p., ai fini della valutazione dei gravi indizi di reato, non operando il regime di cui all’art. 203 c.p.p..

Laura Piras

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