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Reinveste il frutto dell’illecito del congiunto, sì al riciclaggio

Risponde del reato di riciclaggio chi reinveste i frutti dell’attività illecita di un congiunto. Così la Suprema Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 11491/2017 ha condannato i due imputati che in qualità di rappresentante legale e socio di due società avevano fatto transitare i proventi degli illeciti commessi da un parente.

Il caso

Gli imputati erano stati ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 648 bis, II comma, c.p., poiché in qualità rispettivamente di rappresentante legale e socio, avevano utilizzato i ricavi delle condotte illecite commesse dal proprio congiunto nelle attività economiche svolte dalle società a loro riconducibili, facendo temporaneamente transitare le relative somme nella contabilità sociale, a titolo di finanziamento soci non oneroso, e poi recuperando le stesse nel corso del medesimo esercizio contabile.
In questo modo gli imputati avevano ripulito i proventi dell’ attività illecita del congiunto ed ostacolato l’ identificazione della provenienza delittuosa del denaro utilizzato.
I proventi reinvestiti originavano dalla sottrazione ed illecita commercializzazione di idrocarburi operata dal solo congiunto ed accertata in sede di diverso giudizio penale.
Avverso la condanna, confermata anche in appello, gli imputati proponevano ricorso in Cassazione.

La parola ai Giudici

La Suprema Corte ha confermato la responsabilità dei due imputati, ritenendo provata la convinzione che le somme ottenute dalla commercializzazione delle riserve occulte di prodotto petrolifero accumulato fossero state canalizzate verso le compagini sociali al fine di ostacolare l’ identificazione della loro provenienza delittuosa e ripulire i ricavi illeciti dell’ attività criminale in precedenza posta in essere.
Gli Ermellini evidenziano come, in merito all’elemento soggettivo dei reati in contestazione, sia possibile desumere la consapevolezza (intesa anche come rappresentazione dell’ eventualità della provenienza delittuosa del denaro) da una serie di circostanze, costituite dall’assoluta analogia delle condotte poste in essere in entrambe le società e dalla circostanza che nessuno degli imputati abbia saputo e potuto giustificare la provenienza dei finanziamenti economici.

Tale evenienza, in uno allo stretto legame di parentela o affinità con il soggetto incriminato della commercializzazione illecita di idrocarburi, alla sussistenza di interessi comuni di ordine patrimoniale riconnessi alla partecipazione nelle medesime compagini societarie ed alla consistenza delle somme immesse nei conti della società proverebbe, secondo la ricostruzione operata dai Giudici, come gli imputati si fossero rappresentati la concreta possibilità della provenienza delittuosa del denaro ricevuto e investito e avessero accettato, con piena coscienza e volontà, il rischio di compiere delle operazioni di riciclaggio.
Richiamando alcuni precedenti, infatti, la Corte rammenta come il dolo nel reato di riciclaggio si configuri nella forma eventuale (“In tema di riciclaggio, si configura il dolo nella forma eventuale quando l’agente si rappresenta la concreta possibilità, accettandone il rischio, della provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed investitoCass. Pen. n. 8330 del 26/11/2013 )
Pertanto, la durata e la ripetizione dell’ azione (evenienze che nel caso di specie sono state ravvisate dal giudice del merito nel fatto che le ingenti somme furono sempre versate in denaro contante e per importi mai superiori a £ 20.000.000, all’evidente scopo di eludere la normativa antiriciclaggio) costituiscono elementi indicatori del dolo eventuale (Cass. Pen., SS. UU. n. 38343 del 24/04/2014).

Domenica Maria Formica

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