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Licenziamento per un’intervista, il datore deve provare le dichiarazioni

Licenziamento e rapporti con la stampa, un problema per le aziende

 

Capita spesso che, nelle aziende di una certa importanza, i dirigenti si espongano pubblicamente, rilasciando dichiarazioni alla stampa riguardo l’impresa per la quale lavorano. Ma a volte una parola di troppo può costare il licenziamento.

Ne sa qualcosa l’ex direttore finanziario di un noto marchio di moda che, qualche anno fa, fu licenziato per avere confermato nel corso di un’intervista a un quotidiano delle notizie relative ad operazioni volte a falsificare i bilanci aziendali. Almeno, questo è quanto sostenuto dal datore di lavoro, che ha sanzionato il manager con il licenziamento, ritenendo che fosse venuto meno il rapporto di fiducia con il proprio dipendente. Tuttavia, la Cassazione non è dello stesso avviso e, con la sentenza n.3468/2017 ha annullato con rinvio la sentenza di merito, riaprendo la strada al probabile annullamento del licenziamento.

Licenziamento, l’intervista incriminata eppure mai data

Il ricorrente ha sempre sostenuto di non aver mai rilasciato l’intervista e che le parole a lui attribuite erano state estrapolate da un altro contesto, ed in particolare erano state pronunciate nel corso di un interrogatorio in Procura. La Suprema Corte dà ragione al dipendente, ritenendo che non sia stata fornita alcuna prova circa l’effettiva esistenza dell’intervista incriminata. Pertanto, le frasi pronunciate dal manager, e mai da lui smentite, sono solamente la risposta alla richiesta di collaborazione con la magistratura e non hanno causato alcuna rottura del vincolo fiduciario fra impresa e lavoratore.

Licenziamento, il richiamo della Cassazione

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La Cassazione sottolinea come la sentenza impugnata abbia violato la legge sotto un duplice profilo. In primo luogo, la decisione della Corte d’Appello si è basata non su una prova ritualmente acquisita nel corso del processo, ma su un fatto non provato e sempre contestato dal ricorrente. In secondo luogo, non ha fatto corretta applicazione del principio dell’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c., poiché l’azienda non aveva dimostrato l’esistenza dell’intervista, sulla base della quale era stato sanzionato il dipendente. Ricorda la Suprema Corte che compete proprio al datore di lavoro provare il fatto che ha giustificato il licenziamento.

La violazione degli artt. 116 c.p.c. e 2697 c.c. comporta inevitabilmente l’annullamento con rinvio della sentenza di merito, che aveva confermato la legittimità del licenziamento, e restituisce dunque al manager la speranza di veder tutelate le proprie ragioni. Ci vuole ben altro che un’intervista mai rilasciata per licenziare un lavoratore, la Cassazione torna a ricordarlo alle imprese e a tutti noi.

Alessandro Re

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