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Diffamazione: vicende narrate da valutare complessivamente, Espresso condannato

La diffamazione emerge dalla valutazione complessiva delle vicende narrate, Espresso condannato (Cass. Civ. 29640/2017) 

Con la recentissima sentenza Cass. Civ. n. 29640/2017 la Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato da Giuseppe Viola contro il gruppo editoriale L’Espresso per un articolo diffamatorio uscito nel 1996, rimarcando chiaramente alcuni già consolidati principi di diritto in materia di diffamazione a mezzo stampa e confermando la condanna della testata e del giornalista autore del pezzo al risarcimento del danno.

In primo grado il Tribunale aveva riconosciuto al ricorrente un risarcimento di 100mila euro. All’esito del giudizio di appello tuttavia tale somma era stata ridotta a 50mila euro sulla scorta del fatto che la notizia diffamatoria era riportata in poche righe, e quindi non con particolare enfasi, il che contribuirebbe a ridurre notevolmente la gravità del fatto e quindi del danno, “in quanto la eco della sua diffusione è così evidentemente limitata”.

Il ragionamento della Corte d’Appello, all’apparenza formalmente corretto, in verità si discosta dal c.d. “diritto vivente” e dai consolidati principi della giurisprudenza (soprattutto penale) di legittimità sul punto, e cela una valutazione solo parziale del fatto, che ne determina il sostanziale travisamento, come censurato dal ricorrente.

La valutazione della diffamazione.

Oltre al testo dell’articolo (e quindi al di là delle pur necessarie – ma non di per sé decisive – considerazioni in ordine alla sua lunghezza e livello di dettaglio nell’esposizione dei fatti), infatti, particolare rilievo va riconosciuto anche alla titolazione dello stesso (ivi compreso anche il sottotitolo), in quanto il titolo è «specificamente idoneo, in ragione della sua icastica perentorietà, ad impressionare e fuorviare il lettore, ingenerando giudizi lesivi dell’altrui reputazione» (Cass. n. 18769/2013).

Inoltre, secondo la Suprema Corte (cfr., per tutte, Cass. n. 25157/2008 e Cass. n. 9746/2000), la natura diffamatoria di un articolo non dev’essere apprezzata sulla base di una lettura atomistica delle singole espressioni, ma con riferimento all’intero contesto della comunicazione, comprensiva di titoli e sottotitoli e di tutti gli altri elementi che «rendono esplicito, nell’immediatezza della rappresentazione e della percezione visiva, il significato di un articolo, e quindi idonei, di per sé, a fuorviare e suggestionare i lettori più frettolosi» (Cass. n. 20608/2011 cit.).

Tali criteri, ancorché affermati in funzione dell’accertamento della natura diffamatoria o meno di una comunicazione, non possono non valere anche al fine di apprezzare la gravità dell’offesa alla reputazione ai fini della liquidazione del danno in sede civile.

La Corte d’Appello, pertanto, ha errato laddove ha determinato il risarcimento dovuto valutando “esclusivamente il contenuto della notizia relativa al singolo diffamato (l’articolo “in senso stretto”), a prescindere dal contesto complessivo in cui la stessa si colloca, quale delineato -innanzitutto- dai titoli e dai sottotitoli”.

Il testo completo della sentenza è reperibile al seguente link.

Davide Baraglia

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