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Confisca “antimafia”: la sua applicazione non può essere automatica

E’ uno strumento dalla particolare efficacia , riuscendo infatti a sottrarre la disponibilità di ingenti risorse economiche  anche prima della commissione di reati di particolare rilievo. Ma proprio in virtù della sua incisività, la confisca richiede un’attenta valutazione circa i suoi presupposti. Il punto della Cassazione sulla confisca di prevenzione disciplinata dal “Codice Antimafia”.

La Corte di Cassazione si è pronunciata di recente in ordine ai presupposti di quella particolare misura di prevenzione nota come “confisca preventiva”, disciplinata dal Decreto Lgsl. 159/2011 (cd. “Codice Antimafia”) ed in grado di porre un vincolo di indisponibilità su beni riconducibili a soggetti indiziati di far parte di associazioni mafiose, senza passare per un necessario accertamento di reati.

La vicenda

Nel 2014 il Tribunale di Reggio Calabria disponeva l’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale di confisca avente ad oggetto una serie di beni, riconducibili ad un presunto esponente di un clan della ‘ndrangheta. In particolare, il Tribunale reggino aveva valorizzato il fatto che l’attività lavorativa dell’imputato -costruttore edile- fosse rimasta sconosciuta al fisco dal 1978 al 1995. In altre parole, l’imputato si sarebbe reso evasore fiscale, così dimostrando – secondo il Tribunale-una abituale dedizione a traffici delittuosi,e quindi una piena riconducibilità nelle categorie indicate dall’art. 1 lett. a) e b) D. Lgs. n. 159/2011, dove vengono elencati i possibili destinatari di tale misura di prevenzione. La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermava tale decisione.

Tra i motivi di doglianza prospettati alla Suprema Corte dai difensori dell’imputato, veniva evidenziata proprio la stortura consistente nel fatto che i giudici di prime cure avessero dedotto il presupposto della “pericolosità generica” dalla evasione fiscale, quando in realtà in tema di confisca “antimafia”   “…la stessa giurisprudenza impone che sia accertata dal giudice competente per la misura di prevenzione la commissione abituale di reati, individuandone e provandone gli elementi costitutivi”. Tra l’altro non era neanche stato motivato quale parte del patrimonio accumulato dopo il 2005 fosse frutto di attività illecita.

 L’intervento della Cassazione: la prova della “pericolosità sociale”

La V Sezione Penale della Cassazione accoglie esclusivamente il motivo di doglianza sopra descritto. Lo status di evasore fiscale- si legge nella sentenza n° 6067/2017- è “…una condizione che non si sovrappone necessariamente ed automaticamente a quella di chi debba ritenersi “abitualmente dedito a traffici delittuosi” e “viva abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” e sia, quindi, sottoponibile alle misure di prevenzione”. Al contrario , per l’applicazione in generale di misure di prevenzione non può prescindersi dall’individuazione di delitti alla cui commissione dovrà connettersi l’attività del proposto. Diversamente, si finirebbe in maniera indebita- perchè in assenza di norme ad hoc- con l’estendere l’ambito applicativo di tali misure.

Nella vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte, a mancare nella decisione giudiziale contestata  era proprio “…un’attenta ed esaustiva disamina dei delitti che si riconnettono all’attività” realizzata nel tempo dall’imputato. tanto più che l’evasione fiscale in sè considerata può tanto colorarsi di rilievo amministrativo quanto assumere rilevanza penale;le sole ipotesi, queste ultime, che “…soddisfano i requisiti posti dagli artt. 1 e 4 del codice delle misure di prevenzione”.

Niente “automatismi” per la confisca preventiva

La sentenza 6067/2017 afferma quindi il principio di diritto secondo cui l’applicazione della misura di prevenzione della confisca “antimafia” non può mai essere “automatica”. Se è vero che si prescinde dall’accertamento di un fatto-reato per la sua operatività (come per ogni misura di prevenzione: operatività “ante delictum”), dandosi spazio ad una valutazione per certi aspetti sommaria- visto che i possibili destinatari sono in primo luogo gli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.- un’uguale valutazione non può portare ad ignorare precisi presupposti a tal riguardo indicati espressamente dalla legge, come ad esempio il fatto che i beni interessati siano frutto o reimpiego di attività illecite del proposto , o ancora l’impossibilità di giustificare la legittima provenienza di tali beni (art. 24 Codice Antimafia).

Ancora una volta la Suprema Corte sembra porsi a presidio del principio di legalità, seppur a fronte della proficua operatività di uno strumento, introdotto dal Legislatore nel 1982, capace di contrastare e neutralizzare la pericolosità insita in certi beni in quanto “parte integrante” dei massicci patrimoni delle associazioni di stampo mafioso.

Antonio Cimminiello

 

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