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Cosa accade se il datore di lavoro induce il lavoratore alle dimissioni per evitare il licenziamento?

Quid iuris se il datore di lavoro induce il lavoratore alle dimissioni per evitare il licenziamento? Cass. Civ. – Sez. Lavoro – Sentenza 23 marzo 2017 , n. 7523.

Il caso

Con una recentissima sentenza (n. 7523/2017), la Cassazione Civile, Sez. Lavoro, si è pronunciata sul ricorso promosso da una ex dipendente di una Banca, la quale era stata condannata in primo grado a corrispondere a titolo risarcitorio una ingente somma all’Istituto di credito (poi sostanzialmente raddoppiata in secondo grado, in accoglimento dell’appello incidentale della Banca), e che si era altresì vista respingere la domanda riconvenzionale di annullamento delle dimissioni rassegnate asseritamente in seguito a minacce e/o violenza morale.

In particolare, la ricorrente si doleva nel giudizio di legittimità del ragionamento asseritamente parziale e quindi viziato della Corte territoriale, per avere questa limitato la lista testimoniale e non aver ammesso i mezzi di prova richiesti dalla parte. Lamentava inoltre, con un secondo motivo di ricorso, che il Giudice d’appello avrebbe errato nel non riconoscere l’annullabilità, per violenza o minaccia, delle dimissioni cui era stata costretta la dipendente sulla base di una contestazione poi rivelatasi infondata, e sostanzialmente consistite in un licenziamento surrettizio. Infine, si doleva della carenza di prova certa dei danni asseritamente arrecati alla Banca, della mancanza di prova del nesso causale con il comportamento ascritto a quest’ultima, e del mancato riconoscimento del concorso di colpa della Banca dovuto alla grave negligenza nell’adozione di adeguate procedure di controllo e di sicurezza.

La decisione della Cassazione

La Cassazione ha ritenuto che il ricorso fosse inammissibile con riferimento a tutti i motivi sopra esposti, atteso che la ricorrente di fatto contestava, con tutti e tre i mezzi, la valutazione probatoria e l’accertamento in fatto operato dal Giudice di merito. Tuttavia, come noto, questi aspetti sono insindacabili in sede di legittimità ove congruamente e correttamente motivati, come invece era nel caso di specie, e attesa inoltre l’inammissibilità delle argomentazioni generiche e meramente congetturali sollevate.

Con riguardo alle dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento per giusta causa, la Corte in particolare ha rilevato che esse “possono essere annullabili solo ove determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica”. Tuttavia, come detto, l’accertamento effettuato dal giudice di merito è incensurabile nel giudizio di cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio, risolvendosi in un giudizio di fatto (cfr. ex multis Cass. 15161/2015, 3388/2007, 16179/2014).

In disparte le dirimenti questioni processuali sopra evidenziate, pertanto, può aversi l’annullamento delle dimissioni conseguenti a violenza morale solo qualora venga accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento, per insussistenza dell’inadempimento addebitato al dipendente, in quanto, in questo caso, con la minaccia del licenziamento il datore di lavoro persegue un effetto non raggiungibile con il legittimo esercizio del proprio diritto di recesso.

Nel caso di specie, invece, come rilevato dalla Corte d’Appello, la minaccia di un licenziamento per giusta causa e di un’azione risarcitoria da parte della Banca parevano plausibili se rapportati alla gravità dei fatti contestati alla ricorrente, e non, invece, oggettivamente ingiusti.

Il testo completo della sentenza in commento è reperibile al seguente link.

Davide Baraglia

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